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Per Aspera Ad Veritatem n.20
Intervista all'autore: Stefano ROLANDO - Edizioni ETAS, 2001

Teoria e tecniche della comunicazione pubblica. Dallo Stato sovraordinato alla sussidiarietà





D. - Nel processo di modernizzazione dell'apparato amministrativo pubblico in atto nel nostro Paese, il tema della comunicazione sembra aver assunto un ruolo di assoluto rilievo. Si tratta di una materia complessa, che involge tematiche e investe campi d'interesse numerosi e differenti, di natura politico-giuridica, economica e culturale, con rilevanti risvolti di organizzazione.
Nel suo libro, che si articola attraverso i contributi di diversi esperti e studiosi del settore, vengono delineati i fondamenti della materia e le principali linee-guida; vengono altresì individuati soggetti e settori interessati nonché obiettivi e strumenti, anche giuridici, a disposizione per la loro realizzazione.
Vorrebbe illustrare per i nostri lettori le linee evolutive più recenti?


R. - Abbiamo lavorato - almeno negli ultimi quindici anni - con due scenari in cambiamento costante: il perimetro della materia (intesa come comunicazione pubblica) e la relazione tra fonti e destinatari.
La materia ha avuto alcuni anni di difficile legittimazione attorno ai profili di un ruolo esternativo delle pubbliche amministrazioni divenuto - anche per effetto di leggi - sempre più ruolo interattivo. Dopo dieci anni di normative - dalla 241 del 1990 alla 150 del 2000 - mentre nessuno dubita più della legittimità dello Stato a esercitare funzioni informative, comunicative e relazionali in una prospettiva di servizio, la nozione di "pubblico" ha oltrepassato i limiti di tali funzioni. In questo libro - per esempio - non si parla più di una sola fonte (lo Stato) responsabile di una comunicazione di tipo "pubblico". Essa costituisce, cioè, un'area di interazione tra fonti diverse - e ben inteso di tutte con il cittadino-utente - attorno a contenuti di "pubblica utilità". Dunque lo Stato, che certamente ha una posizione preminente in tale quadro ma anche con compiti delimitati ormai a profili definiti dalle normative. E poi, il sistema politico (formalmente fondato su soggetti privati, i partiti, ma d
i natura costituzionale e operanti in comunicazione con risorse della collettività) che è una fonte diversa da quella di amministrazioni, enti e istituzioni che poi esso ha il compito di guidare pro-tempore secondo gli esiti della democrazia. E ancora le organizzazioni sociali e i soggetti delle rappresentanze - ancorché di natura privata - che svolgono rilevante ruolo di affermazione di valori e diritti. E infine lo stesso sistema di impresa - quando non vende né immagine né prodotti (che resta l'area del maggiore spending comunicativo nelle nostre società) - afferma principi e opinioni che concorrono alla definizione degli interessi generali. Questo è il sistema di cui parliamo oggi a proposito di "comunicazione pubblica". Studiando le nuove interazioni tra queste fonti e, tra di esse, principalmente quelle sinergiche connesse alle problematiche dello sviluppo. Contemporaneamente è cresciuto - sulla pressione della domanda sociale, dell'innovazione tecnologica, dei processi di integrazione europea, del
la spinta delle autonomie territoriali - il profilo qualitativo di prestazioni in cui il problema della visibilità (quella pur legittima e connessa maggiormente alla domanda politica) non ha più la sua preponderanza, ma si inquadra in logiche di servizio, di ricerca, di ascolto, di elaborazione, di riorganizzazione. Da qui il ruolo potenzialmente meno ancillare e più strategico della comunicazione non più solo nel mondo dell'impresa ma anche nel mondo sociale e istituzionale.
Per quanto riguarda lo specifico delle pubbliche amministrazioni - che è tema, si intende, di vasto rilievo - le linee evolutive recenti (che il libro affronta ampiamente) discendono dall'accennato provvedimento dello scorso anno, che ha di recente avuto i primi decreti di attuazione. E' una legge che ha avuto un iter lungo, troppo lungo. Parte funziona, parte è invecchiata, parte merita nuovi approcci. Importante è che essa legittimi funzioni e attività. Ma il lavoro di adeguamento è importante e serve non solo un sistema professionale attento, ma anche un'università impegnata nella ricerca e nella didattica. E la migliore volontà politica.

D. - Muovendo dalla legge n. 241/90 per giungere alla più recente legge n. 150/2000, oggetto di ampio approfondimento nel libro, quali progressi, a suo avviso, l'apparato pubblico italiano ha registrato in questo settore, quali i principali ostacoli o "fattori di resistenza" al cambiamento e quali le prospettive per il futuro, anche in relazione al più ampio contesto europeo che, nella sua complessa articolazione istituzionale, sembra soffrire di una carenza di comunicazione che contribuisce ad accentuare la sostanziale distanza tra l'Europa delle istituzioni e quella dei cittadini?

R. - Questo decennio è giudicabile - non tanto per le leggi varate, quanto per i comportamenti messi in opera - con legittima ambiguità. Come il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. C'è una parte del settore pubblico che ha accettato la sfida della professionalizzazione, della valutazione, del rendimento, dell'agire per obiettivi. Ve ne è un'altra che pensa di consistere in virtù delle competenze, dell'autoreferenzialità, del rapporto tra carte e carte. Lo sviluppo delle attività di informazione e comunicazione dipende largamente da questa diversa e antitetica opzione. Credo che l'area oscura delle amministrazioni resta prevalente, soprattutto nei livelli alti. Ma l'esercito degli operatori del settore (relazioni con il pubblico, stampa, comunicazione, eventi, relazioni inter-istituzionali, Internet, comunicazione interna) sfiorerà ormai le centomila persone. Dunque c'è una pressione sia di tipo professionale che sociale al miglioramento che deve adattarsi alla complessa e variante problematica di con
tenuto (ambiente, cultura, sicurezza, educazione, sanità, eccetera) e all'altrettanto complessa articolazione territoriale (tra l'Europa che acquista sovranità, lo Stato in riforma, le regioni in allargamento di competenze e gli enti locali che presidiano la prossimità).
Quanto al riferimento all'Europa, il mio punto di vista è che le istituzioni comunitarie abbiano finora privilegiato lo strumento della comunicazione politica, intesa come annuncio e affidamento ai media. Fidandosi della quantità delle "rassegne stampa". Non sono state sviluppate adeguatamente la comunicazione istituzionale e sociale, che - con il supporto di una cultura del marketing - spieghino e raccontino il cambiamento alla gente, segmento per segmento.

D. - Venendo al tema della sicurezza, di nostro specifico interesse professionale, nel suo libro viene evidenziato come in questo settore esista una profonda differenza tra la realtà e la concretezza dell'operato delle istituzioni preposte alla difesa della sicurezza dei cittadini e la percezione che questi ne hanno. Viene inoltre evidenziato come in questo ambito la carenza di informazione da parte delle Istituzioni, accompagnata dall'assenza di comunicazione da parte dei mass media, o da una presenza spettacolarizzata, rappresenti un elemento particolarmente negativo. Un percorso innovativo non può che passare, infatti, in questo settore più che in altri, attraverso quello che viene definito nel suo libro il "consenso attivo" del cittadino, attraverso cioè un rapporto diretto di collaborazione fiduciosa con questo.
Vorrebbe illustrare quali caratteri e quale ruolo, a suo avviso, può avere la comunicazione pubblica in un ambito tanto "sensibile" e attraverso quali peculiari strumenti questa dovrebbe realizzarsi? In particolare, qual è la sua opinione in merito ad una comunicazione dell'intelligence, di cui questa Rivista e il sito web www.sisde.it costituiscono un significativo esperimento?


R. - Ho dedicato a questo tema molta attenzione - anche in collaborazione con ambienti professionali e di ricerca dell'area militare e delle amministrazioni dedicate alla problematica, in particolare quella dell'Interno - ricavando l'impressione di una forte divaricazione tra consapevolezza di alcuni e scarsità di strumenti organizzativi e tecnico-professionali per presidiare adeguatamente un tema che dovrebbe costituire oggetto di rilevante educazione civile di massa. L'educazione alla cultura della sicurezza. Quella che riduce i rischi di trattamento demagogico del tema, quella che rende un bilancio di infrastruttura e di potenziamento organizzativo "compreso" dall'opinione pubblica, quella che lascia al suo spazio un po' allarmistico ma non travolgente un titolo eccessivo di giornale o il fatto - pur spiacevole e drammatico - di singoli episodi criminali. Non perché pensi che la comunicazione debba attutire il rilievo sociale dei fatti criminali. Tutt'altro. Ma essa deve mantenere in dialogo con
il paese - direttamente e attraverso un uso intelligente dei moltiplicatori - strutture che sentano il bisogno di spiegare e spiegarsi. D'altronde noi veniamo da decenni in cui ha prevalso l'ipotesi che parlare di difesa e sicurezza andava fatto solo con connotazioni di azioni civili. Le forze armate utili, in sostanza, per i terremoti, ma non per difendere la sicurezza del Paese. Eccetera. Quindi sottacendo il potenziale strategico, organizzativo, tecnologico necessario - perché "guerrafondaio" - che invece in altri paesi (penso per esempio all'Inghilterra) viene conosciuto dai cittadini informati nel dettaglio e apprezzato nella misura in cui viene garantita la funzionalità agli interessi della collettività e di ciascuno. Anni di cultura della sicurezza alle spalle. Da noi l'idea di puntare solo sui media e sulle conferenze stampa (che ogni tanto domina anche l'azione di ministri pur capaci) è deleteria al riguardo, perché per loro natura i media privilegeranno l'informazione sugli aspetti patologici, scarteranno brutalmente l'informazione sugli sviluppi fisiologici (considerandola "propaganda"). E non si può ricorrere sempre alla magia di una fortunata serie televisiva come il maresciallo Rocca, per spiegare tutto ciò che va spiegato. Serve una costante, diffusa, professionalizzata, strategica, programmata politica di comunicazione integrata. Mi pare che siamo ancora molto indietro.

D. - Venendo ora agli strumenti propri della comunicazione pubblica, sia quella che nel suo libro viene definita "extra-istituzionale" - ossia relativa allo scambio di informazioni tra l'apparato pubblico e "tutto ciò che c'è all'esterno" - sia quella "inter-istituzionale" - ossia riferita allo scambio di informazioni all'interno delle istituzioni - è indubbio che l'information technology offre oggi possibilità enormi di miglioramento del prodotto offerto ai cittadini.
Vorrebbe illustrarci la sua opinione al riguardo, non solo per quanto concerne il tema più generale dell'informatizzazione dell'apparato pubblico, ma anche in relazione ai molti temi posti dall'utilizzazione della Rete da parte dell'Amministrazione?


R. - Effettivamente le reti telematiche aprono spazi e superfici che risolvono una parte della questione che abitualmente definisco "la strettoia mediatica". Vi è cioè la possibilità di costruire percorsi e contenuti che integrano informazione e comunicazione (notizie e spiegazioni, fatti e corredi di documentazione) ma a condizione che si sviluppi una promozione reale dell'uso del sito presso gli utenti e che il sito stesso sia adeguatamente presidiato nei processi interattivi. Dunque un sito-servizio, non un sito-vetrina, perché quest'ultimo è morto ancora prima di nascere. E poi la capacità di fare rete tra soggetti pubblici (o con competenze affini) così che il servizio viaggi verso l'utente e non viceversa. Tutto ciò si sta sviluppando con una ancora eccessiva spontaneità (che è comprensibile) e senza adeguate analisi valutative (cioè di rendimento, di qualità, di efficacia). Credo che in generale è proprio sul tema della valutazione che dovrà essere ripresa l'attuale normativa da parte del legislatore, perché se si formassero virtuose relazioni tra istituzioni e università (o comunque qualificati centri esterni di ricerca) si produrrebbero indicazioni importanti di garanzia per l'utente e di monitoraggio della funzionalità dei servizi così da consentire il loro continuo riposizionamento organizzativo. Aprire sportelli e non verificarne il rendimento è come aprire la porta di casa a portata dei ladri e poi piangere perché è sparita l'argenteria.


(*) A cura della Redazione

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